lunedì, Dicembre 23, 2024
Home Blog Page 10

Caso Ferragni, le nuove regole dell’Agcom per gli influencer

Il Consiglio dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato all’unanimità le Linee guida volte a garantire il rispetto da parte degli influencer delle disposizioni del Testo unico sui servizi di media audiovisivi. L’Agcom ha sottolineato come «la crescente rilevanza e diffusione dell’attività degli influencer, definiti come soggetti che creano, producono e diffondono al pubblico contenuti audiovisivi, sui quali esercitano responsabilità editoriale, tramite piattaforme per la condivisione di video e social media, abbia sollecitato l’Autorità ad intervenire. Le Linee approvate costituiscono un primo importante passo».

Le Linee guida definiscono un insieme di norme indirizzate agli influencer operanti in Italia che raggiungono almeno un milione di follower sulle varie piattaforme o social media su cui operano e hanno superato su almeno una piattaforma o social media un valore di engagement rate medio pari o superiore al 2% (ossia, che hanno suscitato reazioni da parte degli utenti, tramite commenti o like, in almeno il 2% dei contenuti pubblicati). In caso di contenuti con inserimento di prodotti, gli influencer sono tenuti a riportare una scritta che evidenzi la natura pubblicitaria del contenuto in modo prontamente e immediatamente riconoscibile.

Le Linee guida dispongono, inoltre, l’avvio di un Tavolo tecnico per l’adozione di un codice di condotta che definisca le misure a cui gli influencer si dovranno attenere. Il codice sarà redatto nel rispetto dei principi che informano le Linee guida e prevederà sistemi di trasparenza e riconoscibilità degli influencer che dovranno essere chiaramente individuabili e contattabili. Al Tavolo tecnico parteciperanno anche soggetti che solitamente non rientrano nel perimetro normativo e regolamentare dell’Autorità, quali quelli che popolano il mondo dell’influencer marketing, quindi non solo influencer, ma anche soggetti che operano quali intermediari tra questi e le aziende. Ciò permetterà di recepire le istanze di questi soggetti e di indirizzarne l’azione, avvalendosi delle buone prassi in materia, verso il rispetto delle regole.

Stefano Voltolina suicida in cella a 26 anni, la prof delle medie: «Abbiamo fallito»

Nella serata di lunedì 8 gennaio un detenuto si è tolto la vita impiccandosi nella propria cella, nel carcere Due Palazzi di Padova, utilizzando la cintura di un accappatoio. Stefano Voltolina aveva 26 anni, era in carcere da agosto per scontare una pena che sarebbe terminata a metà del 2028. Si tratta del secondo suicidio nelle carceri italiane in una settimana.

In carcere, Stefano Voltolina aveva ritrovato Manuela Mezzacasa, sua ex insegnante, ora volontaria dell’associazione Granello di Senape-AltraCittà nella biblioteca della casa di reclusione. Mezzacasa ha ricordato Stefano Voltolina in una lettera aperta, diffusa dalla onlus “Granello di Senape“, che pubblichiamo integralmente.

L’ultima volta che l’ho intravisto, era lui, camminava mestamente davanti a me nel corridoio con un agente, ma quando sono arrivata davanti al cancello erano spariti. L’avevo riconosciuto dalla camminata e dalla figura, piuttosto massiccia. In biblioteca invece mi avevano colpito lo sguardo e il modo di muoversi: erano arrivati in due, l’altro piuttosto sguaiato, lui taciturno, mi aveva fatto tornare in mente un mio alunno delle medie di tanti anni prima. Poi qualche frase e ci siamo riconosciuti, “Prof, ma aveva i capelli lunghi e biondi…”. Già, e lui era un ragazzino molto speciale.

Ci era capitato tra capo e collo all’inizio dell’anno, affidato a una casa famiglia del Villaggio Sant’Antonio, la scuola media dove inserirlo era la nostra. Alla prima riunione con l’équipe mi ero veramente arrabbiata: come potevano immaginare che saremmo stati in grado di gestire un caso così impegnativo… Mai frequentato regolarmente la scuola, nessuna idea di cosa fosse un qualsivoglia regolamento. Eppure… Anch’io sono scappata da scuola in seconda elementare, forse qualcosa mi avvicinava a lui, o era lui a farsi benvolere. È stato mio alunno per due anni, prima e seconda media, alla fine ce l’avevamo quasi fatta. Certo, ogni tanto usciva dalla classe e allora… inseguimenti per i corridoi e le scale, molto pericoloso, ma i ragazzi della Santini non si sono mai divertiti tanto.

Decidemmo di essere sempre in due, per non dover abbandonare lui o gli altri; il preside stava in classe con noi nelle ore senza insegnante di sostegno. Poi l’abbiamo bocciato, devo dire così perché il voto è di maggioranza, ma ovviamente non ero d’accordo. Così l’anno dopo lui aveva perso i compagni, che nel frattempo gli si erano affezionati, e gran parte degli insegnanti. Un giorno, durante una lezione, vedo i ragazzi di fronte a me irrigidirsi e guardarmi con occhi spalancati. “Ragazzi, che cosa succede?”. “Prof, c’è Stefano…”. Seguo i loro sguardi e lo vedo, fuori dalla finestra, sul cornicione che collegava tutto il primo piano della facciata. Era venuto a salutarci, uscendo dalla finestra della sua aula e raggiungendo la nostra, ci sorrideva, questo era Stefano.

Ma chi era Stefano Voltolina? Spesso mi aveva parlato di sé e della sua famiglia, veniva da Chioggia, suo padre pescatore. “Prof, ma non sa cosa sono le tegnue?”. Il suo mondo erano il mare e un cantiere di sfasciacarrozze dove passava le giornate con una banda di ragazzini, invece di andare a scuola. Lui sapeva più di me, senza dubbio. Scriveva bene, era sveglio, curioso, buono, si può dire?». Ho conosciuto la madre e il padre, gli volevano bene, non ce la facevano a stargli dietro, non ricordo quanti figli avessero. Certo, Stefano per due volte riuscì a raggiungere Chioggia in bicicletta, fuggendo dalla casa di Noventa Padovana. Mi diceva: “Non vedo l’ora di avere diciotto anni”. “E cosa farai?”. Rideva: “Torno a Chioggia”.

Con i miei alunni avevamo un’abitudine, se avevano trovato un libro interessante potevano consigliarlo a me e ai compagni. A Stefano avevano regalato l’autobiografia di una velista che a diciotto anni aveva circumnavigato in solitario, vincendo la competizione. Non so se l’avesse letta davvero, ma me la portò. Ero scettica, ma la lessi e mi piacque molto. Ecco, in mezzo ai libri ci siamo ritrovati, per poco. Tre volte è sceso in biblioteca durante il mio turno: abbiamo parlato dei suoi progetti, la musica, la scrittura.

Il secondo giovedì si interessò al concorso di poesia che stava per scadere; con la collaborazione di Enrico riuscimmo a spedire per il rotto della cuffia una poesia dedicata a una ragazza. Il ritmo era giusto, diedi solo qualche aggiustatina con il suo consenso, spero si possa recuperare. Il terzo giovedì mi portò tre fogli scritti a mano, con riflessioni filosofiche (se non sbaglio la settimana prima aveva preso un testo di Nietzsche): volle che le leggessi insieme a lui, lo facemmo. Gli chiesi spiegazioni di varie espressioni, e lui mi diede le sue risposte. Stamattina, riguardando i fogli che lui insistette per lasciarmi, con mio marito concordammo che erano un collage di frasi selezionate da testi filosofici, quelle che lo avevano colpito, credo, in cui si riconosceva.

Ci lasciammo con un piccolo progetto di lavoro a tre: Tiziano avrebbe raccontato le sue storie, Stefano le avrebbe scritte («Io non me la sento di raccontare la mia storia», «Ma non ti preoccupare, tu scriverai le storie che Tiziano racconta», «Allora ok»), io avrei fatto il mio mestiere di correttrice. Mi piaceva, apriva una prospettiva diversa anche al mio ruolo lì dentro. Non l’ho più rivisto. Cosa posso dire adesso? Abbiamo fallito, come altre volte. Facciamo almeno qualcosa per non dimenticarcelo, il nostro fallimento. Di lui, di Stefano, io non mi potrò mai dimenticare.

Il 45% degli italiani ha fiducia in Giorgia Meloni

Secondo un sondaggio realizzato da Termometro Politico per La7, il 42,9% degli italiani ha fiducia nei confronti della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Dal sondaggio, inoltre, emerge che l’11,1% degli intervistati ha poca fiducia verso la leader di Fratelli d’Italia, mentre il 45,6% non ha alcuna fiducia nei confronti della presidente.

Fratelli d’Italia continua ad essere il primo partito nelle intenzioni di voto degli italiani. La distanza tra il partito di Giorgia Meloni e il Partito democratico è del 10,1%. La coalizione di Centrodestra (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia) è al 45,6%, quella di Centrosinistra (Partito democratico, Alleanza Verdi-Sinistra, Più Europa) è ferma al 24,7%. Alleanza Versi-Sinistra, Italia viva, Più Europa, Per l’Italia e Unione popolare ottengono un gradimento inferiore alla soglia di sbarramento. Più di un terzo degli italiani è indeciso o non intende recarsi alle urne.

Di seguito le rilevazioni relative alle intenzioni di voto per i principali partiti politici. Il sondaggio è stato realizzato dall’istituto SWG per La7. I dati del sondaggio sono stati confrontati con le rilevazione effettuate dallo stesso istituto tre settimane fa.

Fratelli d’Italia29,2% (+0,7%)
Partito democratico19,1% (-0,3%)
MoVimento 5 stelle16,4 (-0,4%)
Lega9,1% (=)
Forza Italia7,3% (-0,2%)
Azione4% (+0,3%)
Alleanza Verdi – Sinistra3,2% (-0,2%)
Italia viva3,5% (-0,1%)
+ Europa2,4% (-0,2%)
Per l’Italia1,4% (-0,3%)
Unione popolare1,2% (-0,2%)
Indecisi/astenuti39% (-2%)

La disoccupazione giovanile cala al 21% a novembre 2023

A novembre 2023, rispetto al mese precedente, aumentano gli occupati e gli inattivi, mentre diminuiscono i disoccupati. Secondo le rilevazione dell’ISTAT, l’occupazione aumenta (+0,1%, pari a +30mila unità) tra le donne (quella maschile rimane sostanzialmente stabile), i dipendenti e gli over 34, mentre cala tra gli autonomi e i 15-34enni. Il tasso di occupazione resta invariato al 61,8%. Il numero di persone in cerca di lavoro diminuisce (-3,3%, pari a -66mila unità) per uomini e donne e per tutte le classi d’età, con l’eccezione dei 25-34enni tra i quali invece si osserva un aumento. Il tasso di disoccupazione totale scende al 7,5% (-0,2%). Il tasso di disoccupazione giovanile cala al 21,0% (-2,5%).

Tra ottobre e novembre 2023, i giovani fino a 24 anni mostrano un tasso di occupazione stabile, una diminuzione di quello di disoccupazione e un aumento di quello di inattività. Il tasso di occupazione diminuisce invece tra i 25-34 enni e cresce tra chi ha almeno 35 anni. La diminuzione del tasso di disoccupazione giovanile si accompagna al calo di quello di inattività tra i 35-49enni, che risulta invece stabile tra chi ha almeno 50 anni.

La crescita del numero di inattivi (+0,4%, pari a +48mila unità, tra i 15 e i 64 anni) coinvolge uomini, donne e solamente gli individui di età inferiore ai 35 anni; tra i 35-49enni e gli ultracinquantenni gli inattivi sono infatti in calo. Il tasso di inattività sale al 33,1% (+0,1%).

Confrontando il trimestre settembre-novembre 2023 con quello precedente (giugno-agosto), si registra un aumento del livello di occupazione pari allo 0,6%, per un totale di 130mila occupati. La crescita dell’occupazione, osservata nel confronto trimestrale, si associa all’aumento delle persone in cerca di lavoro (+0,7%, pari a +14mila unità) e alla diminuzione degli inattivi (-1,1%, pari a -137mila unità).

Il numero di occupati, a novembre 2023, supera quello di novembre 2022 del 2,2% (+520mila unità). L’aumento coinvolge uomini, donne e tutte le classi d’età, a eccezione dei 35-49enni per effetto della dinamica demografica negativa: il tasso di occupazione, che nel complesso è in aumento di 1,3 punti percentuali, sale anche in questa classe di età (+1,3%) perché la diminuzione del numero di occupati 35-49enni è meno marcata di quella della corrispondente popolazione complessiva. Rispetto a novembre 2022, calano sia il numero di persone in cerca di lavoro (-3,6%, pari a -71mila unità) sia quello degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-3,6%, pari a -459mila).

Detenuto suicida in carcere, la madre: «Lo Stato me lo ha ammazzato»

La Procura di Ancona ha aperto un fascicolo contro ignoti per istigazione al suicidio sul caso di un detenuto suicida in una cella del carcere di Montacuto. Matteo Concetti, 25enne originario del Fermano, si è tolto la vita 5 gennaio scorso in una cella nella quale era detenuto in isolamento. La Procura effettuerà approfondimenti per appurare se il giovane presentasse una patologia psichiatrica conclamata al punto tale da non essere in una condizione compatibile con la detenzione in carcere.

Sinistra Italiana delle Marche ha espresso «tutta la sua vicinanza alla famiglia» di Matteo Concetti, detenuto suicida nel carcere di Ancona. «Davanti ai genitori e agli operatori – ha precisato il partito – venerdì aveva minacciato il suicidio se l’avessero condotto in isolamento. Alle 18 è stato trovato morto. Il 6 gennaio scorso la senatrice Ilaria Cucchi e attivisti del partito sono stati vicini alla famiglia presso la camera mortuaria, perché nel 2024 la salute e la vita di un detenuto è ancora più di un numero. Lo è per noi e dovrebbe esserlo per la Repubblica italiana».

Il racconto della madre

«Mamma, mi devi portare fuori di qui. Non ce la faccio più. Devi chiamare Ilaria Cucchi, qua mi fanno fare la fine di Stefano», avrebbe riferito il giovane a sua madre, secondo quanto riportato da La Repubblica. «Se solo gli avessi dato ascolto quindici giorni fa, chissà, forse sarei riuscita a portarlo fuori da quell’inferno dove me l’hanno ucciso – ha aggiunto la madre – Cucchi l’ho chiamata ma solo venerdì, poche ore prima che Matteo si uccidesse».

«Mio figlio aveva un disturbo psichiatrico accertato, era bipolare, in carcere non ci poteva stare. Tantomeno in isolamento, senza nessuno che lo controllasse, impaurito e agitato com’era. Venerdì mattina, nell’ultimo colloquio che abbiamo avuto, lo ha detto a me e a suo padre davanti alle guardie e a un avvocatessa: “Mamma, mi ha detto, se mi riportano giù in isolamento mi impicco”. Io ho chiesto aiuto a tutti, nessuno mi ha dato ascolto e hanno lasciato che si suicidasse. Ho chiesto rassicurazioni alle guardie, le ho implorate che non lo lasciassero solo. Ho chiesto aiuto all’infermiere che era venuto per dargli una terapia che non gli hanno invece voluto far prendere, ho chiesto di poter parlare con il medico».

«“Oggi non c’è nessuno, non possiamo aiutarla”, mi hanno risposto. Ho chiamato il cappellano, gli avvocati, il tutore che gli era stato nominato. Nessuno mi ha ascoltato. “C’è il weekend di festa, poi ne parliamo”. Come si è impiccato? Gli avevo portato delle patatine, degli affettati e non me li hanno fatti entrare per motivi di sicurezza – conclude la madre – Quando sono entrata in carcere mi hanno fatto togliere la cintura del cappotto. E lui invece è riuscito ad impiccarsi in cella. Come è possibile? Adesso denuncio tutti. Denuncio il carcere e lo Stato che me lo ha ammazzato».

Il racconto di Roya Heshmati, frustata 74 volte per una foto senza hijab

Roya Heshmati, una donna iraniana di 33 anni, ha ricevuto una condatta a 74 frustate per “attentato ai pubblici costumi”. La condanna, eseguita il 3 gennaio scorso, è stata causata dalla pubblicazione da parte della donna, sui suoi profili social, di una foto che la ritraeva senza l’hijab indumento che, secondo la legge islamica, è obbligatorio indossare. Roya Heshmati è un’attivista che si oppone all’obbligo dell’hijab, vigente in Iran. È stata lei stessa a raccontare come sia stata eseguita la condanna: un’agente donna le ha messo con la forza un foulard sulla testa; dopodiché, un agente uomo l’ha frustata sulle spalle, sulla schiena, sulle natiche e sulle gambe.

L’organizzazione per i Diritti umani Hengaw ha tradotto in inglese le parole di Roya Heshmati, condivise sulla sua pagina Facebook con l’hashtag Jin, Jiayn, Azadi (donna, vita, libertà). Successivamente, le parole dell’attivista sono state tradotte in italiano da NdC. Le pubblichiamo integralmente.

Il racconto di Roya Heshmati

Questa mattina ho ricevuto una telefonata dall’ufficio per l’esecuzione della sentenza di 74 frustate. Ho contattato subito il mio avvocato e insieme ci siamo recati al tribunale del settimo distretto. All’ingresso ho scelto di togliermi l’hijab. All’interno della sala, dalle scale proveniva l’eco dell’angoscia di una donna, che forse indicava l’imminente esecuzione della sentenza. Il mio avvocato mi ha consigliato: «Roya, ripensaci. Le ripercussioni delle frustate dureranno a lungo».

Ci siamo recati alla prima sezione dell’ufficio per l’esecuzione della sentenza. Un’impiegata mi ha suggerito di indossare il velo per evitare problemi. Con calma e rispetto, ho detto che ero venuta apposta per le frustate e che non avrei ceduto. Quando è giunto il funzionario incaricato, mi ha ordinato di indossare l’hijab e di seguirlo. Con fermezza ho dichiarato che non avrei indossato l’hijab. Ha minacciato di frustarmi con più forza, e di denunciarmi di nuovo, aggiungendo così altre settantaquattro frustate. Ho mantenuto la mia posizione e non ho indossato l’hijab.

Siamo scesi, e avevano portato alcuni giovani per accuse legate all’alcol. Il funzionario mi ha ripetuto con severità: «Non ti avevo detto di indossare l’hijab?». Non mi sono adeguata. Due donne che indossavano il chador si sono avvicinate e mi hanno calcato un foulard sulla testa. Ho resistito, togliendolo ripetutamente, ma loro hanno insistito. Ammanettandomi da dietro, hanno continuato a infilarmi un hijab sulla testa. Abbiamo proseguito fino al piano terra, utilizzando le stesse scale dove era stata portata la donna. In fondo al parcheggio ci attendeva una stanza. Il giudice, l’ufficiale dell’esecuzione e la donna che indossava il chador erano in piedi accanto a me. La donna sembrava visibilmente colpita, sospirando più volte ed esprimendo comprensione, dicendo: «Lo so. Lo so».

Il giudice mi ha sorriso, ricordando un personaggio di Boofe Kur. Ho distolto lo sguardo da lui. Si è aperta, cigolando, una porta di ferro, rivelando una stanza con pareti di cemento. In fondo alla stanza c’era una branda dotata di manette e bande di ferro saldate su entrambi i lati. Al centro della stanza si trovava un dispositivo di ferro che assomigliava a un grande cavalletto, completo di posti per le manette e di un anello di ferro arrugginito al centro. Inoltre, dietro la porta erano posizionati una sedia e un tavolino con una serie di frustini. Sembrava una camera di tortura medievale completamente attrezzata.

Il giudice ha chiesto: «Sta bene? Non ha problemi?». Poiché non stava parlando con me, rimasi in silenzio. Poi ha detto: «Parlo con lei, signora!». Ancora una volta, ho scelto di non rispondere. Il boia mi ha ordinato di togliermi il cappotto e di sdraiarmi sul letto. Ho appeso il cappotto e l’hijab alla base della branda di ferro. Lui ha insistito: «Mettiti l’hijab!». Ho risposto con fermezza che non l’avrei fatto. «Metti il Corano sotto il braccio e fai quello che devi fare». La donna ha esortato: «Per favore, non essere testarda». Ha preso l’hijab e me lo ha messo a forza.

L’uomo ha recuperato una frusta di cuoio nero dalla collezione dietro la porta e l’ha avvolta due volte intorno alla mano mentre si avvicinava alla branda. Il giudice aveva raccomandato di non colpire troppo forte. L’uomo ha cominciato a colpirmi le spalle, la schiena, i fianchi e le gambe. Non ho contato i colpi. Dentro di me cantavo:

«In nome della donna,
in nome della vita,
i vestiti della schiavitù sono strappati,
la nostra notte nera lascerà il posto all’alba,
e tutte le fruste saranno tagliate…».

Il calvario si è concluso. Ho voluto esser certa che non percepissero alcun dolore da parte mia. Siamo saliti nella stanza del giudice. Un’agente donna mi seguiva, attenta al mio hijab. Me lo sono tolto davanti alla porta del giudice. Mi ha implorato di indossarlo, ma ho resistito. All’interno dell’aula del giudice, egli ha riconosciuto il disagio per il caso, ma ha insistito che quello che doveva essere fatto andava fatto. Ho scelto il silenzio. Lui ha suggerito di vivere all’estero per una vita diversa. Io ho affermato il nostro impegno nella resistenza, sottolineando l’universalità di questo Paese. Lui ha insistito sul rispetto della legge e io ho esortato la legge a svolgere il suo ruolo mentre noi continuiamo a resistere.

Siamo usciti dalla stanza. Grazie, caro signor Tatai (il suo legale, ndr), per la sua compagnia, che rende questi giorni difficili più sopportabili. Le porgo le mie scuse per non essere una cliente ideale; sono certo che comprenderà. Grazie di tutto.

Nel 2023 i prezzi sono cresciuti del 5,7%

Secondo le stime preliminari dell’ISTAT, nel mese di dicembre 2023 l’indice nazionale dei prezzi al consumo è aumentato dello 0,2% su base mensile e dello 0,6% su base annua (dal +0,7% del mese precedente). In media, nel 2023 i prezzi al consumo hanno registrato una crescita del 5,7%, in calo rispetto all’8,1% nel 2022.

Il rallentamento su base tendenziale dell’inflazione, secondo l’ISTAT, è dovuto prevalentemente ai prezzi dei beni energetici regolamentati, che accentuano la loro flessione da -34,9% a -41,7%, a quelli dei servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (da +4,6% a +3,6%) e dei beni alimentari lavorati (da +5,8% a +5,0%). Quelli dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona rallentano lievemente su base tendenziale da +5,4% a +5,3%. Rallentano anche quelli dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto (da +4,6% di novembre a +4,4%).

L’aumento congiunturale dell’indice generale è dovuto, per lo più, alla crescita dei prezzi dei servizi relativi ai trasporti (+1,4% anche a causa di fattori stagionali), dei beni alimentari non lavorati (+0,7%) e dei beni durevoli e non durevoli (entrambi +0,5%). Gli effetti di questi aumenti sono stati solo in parte compensati dalla diminuzione dei prezzi degli energetici, sia regolamentati (-3,5%) sia non regolamentati (-2,1%).

Un uomo è in carcere da 20 mesi per un’estorsione da 4 euro

Kelvin Egulbor, un uomo di origini nigeriane di 25 anni, è in carcere a Poggioreale da 20 mesi dopo aver ricevuto una condanna a cinque anni, in primo grado, con l’accusa di estorsione. Secondo l’accusa, Egulbor avrebbe minacciato un uomo di tagliargli la cappotta dell’auto se non gli avesse consegnato 2 euro per parcheggiare nella zona di Fuorigrotta, a Napoli.

Nei confronti di Kelvin Egulbor pende anche un altro procedimento giudiziario, promosso sempre dalla stessa persona, per un’altra richiesta di 2 euro. Secondo la sua legale, Salvia Antonelli, l’uomo è un mendicante, assistito dalla chiesa di San Vitale a Fuorigrotta. Egulbor, grazie al parroco, svolgeva qualche lavoretto o spazzava la strada chiedendo l’elemosina. L’avvocata chiederà la liberazione di Egulbor e, in subordine, la detenzione domiciliare.

«Non è possibile – spiega la legale – che una persona possa rimanere in carcere da tanto tempo per una estorsione, reato che noi contestiamo abbia compiuto, di appena due euro. Mentre magari ci sta chi se ne va in giro dopo aver commesso un omicidio». Secondo l’avvocata, «non sussistono le esigenze cautelari che legittimano la detenzione in carcere. Vi è una evidente sproporzione tra la personalità dell’imputato, il fatto in contestazione e la misura cautelare. Tale misura sicuramente impedisce ad Egubor di intraprendere una seria e corretta prosecuzione del percorso di vita e di crescita formativa».

Samuele Ciambriello, Garante campano delle persone private della libertà personale, ha chiesto «che Kelvin venga collocato in una comunità del Casertano che ha offerto la disponibilità a prenderlo. È evidente, in questa vicenda, che c’è una assoluta sproporzione di pena rispetto ai fatti contestati. Nelle carceri ci sono tanti casi di invisibili, di persone senza fissa dimora ed accusati di piccoli reati».

«Per Kelvin – sottolineano Antonelli e Ciambriello – è addirittura ignorata la pronuncia della Corte costituzionale del 24 maggio scorso. Tale pronuncia con la quale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 629 del codice penale, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità».

A Gaza dall’inizio del conflitto più di 10 bambini al giorno perdono un arto

Più di 10 bambini al giorno, in media, hanno perso una o entrambe le gambe a Gaza dall’inizio del conflitto tre mesi fa. Lo ha dichiarato Save the Children. Dal 7 ottobre, secondo l’UNICEF, più di 1.000 bambini hanno subito l’amputazione di una o entrambe le gambe. Molte di queste operazioni sono state effettuate senza anestesia, a causa della paralisi del sistema sanitario nella Striscia causata dal conflitto e della grave carenza di medici e infermieri e di forniture mediche come anestetici e antibiotici.

Solo 13 dei 36 ospedali di Gaza rimangono parzialmente funzionanti, ma operano in modo limitato e instabile a seconda della possibilità di accesso al carburante e alle forniture mediche di base in ogni giorno. I nove ospedali parzialmente funzionanti nel sud stanno operando al triplo della loro capacità. Inoltre, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, solo il 30% dei medici di Gaza in servizio prima del conflitto lavora ancora. Secondo il Ministero della Sanità di Gaza, circa 22.000 palestinesi sono stati uccisi e altri sono stati 57.000 feriti.

«La sofferenza dei bambini a Gaza è inimmaginabile»

«Ho visto medici e infermieri completamente sopraffatti mentre i bambini arrivavano con ferite da esplosione. L’impatto nel vedere i bambini soffrire così tanto e non avere le attrezzature e le medicine per curarli o alleviare il dolore è troppo forte anche per i professionisti più esperti. Anche in una zona di guerra, la vista e la voce di un bambino mutilato dalle bombe non possono essere accettati né tantomeno compresi entro i confini dell’umano», ha dichiarato Jason Lee, direttore di Save the Children nei Territori palestinesi occupati.
 

«I bambini piccoli coinvolti nelle esplosioni sono particolarmente vulnerabili nei confronti delle lesioni gravi invalidanti. Hanno il collo e il busto più deboli, quindi è sufficiente una minore forza per causare una lesione cerebrale. Le loro teste non sono ancora completamente formate e i loro muscoli non sviluppati offrono minore protezione. Per loro è più probabile che un’esplosione possa lacerare gli organi nell’addome, anche quando non ci sono danni visibili. La sofferenza dei bambini in questo conflitto è inimmaginabile e lo è ancora di più perché è inutile e assolutamente evitabile. Questa sofferenza, l’uccisione e la mutilazione dei bambini sono considerate come gravi violazioni nei confronti dei bambini, e i responsabili devono essere chiamati a risponderne».

«Se la comunità internazionale non interviene per far fronte alle proprie responsabilità ai sensi del diritto internazionale umanitario e per prevenire i crimini più gravi di rilevanza internazionale, la storia ci giudicherà tutti. Dobbiamo tenere conto delle lezioni del passato e impedire che si continuino a verificare crimini atroci. Solo un cessate il fuoco definitivo porrà fine alle uccisioni e alle mutilazioni di civili e consentirà l’arrivo degli aiuti umanitari, di cui c’è disperato bisogno», ha concluso Lee.

Intervista a ZIA: La nuova Zona Indipendente Artistica del teatro milanese

Lì dove c’era un centro scommesse ora c’è un’associazione culturale, si potrebbe iniziare, facendo il verso a Celentano. Quell’associazione si chiama ZIA, acronimo di Zona Indipendente Artistica, ed è stata fondata nel gennaio 2023 a Baia del Re, nome storico con cui i milanesi chiamano quella parte del quartiere Stadera a ridosso di via Montegani, per poi aprire le sue porte al pubblico ufficialmente a febbraio e presentare nei mesi di ottobre, novembre e dicembre la sua stagione teatrale. 

Il board dell’associazione è formato da tre giovani donne, conosciutesi alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi: Eleonora Paris (drammaturga), Francesca Mignemi (drammaturga) e Virginia Landi (regista). Insieme a loro, a completare il pentacolo della Zona Indipendente Artistica – ZIA, Alessandro Balestrieri (attore) e Irene Serini (attrice). 

A questi nomi corrispondono spettacoli che hanno attraversato le recenti stagioni teatrali, ufficiali e OFF, del teatro milanese, come ad esempio Sogni 2.0, Due Volte Tito – Sopravvivere alla tragedia, Abracadabra – Incantesimi di Mario Mieli, Theatrify – Dai scegli un pezzo, vincitore del premio della critica al FringeMi 2023 e più recentemente Preferisco il rumore del mare, e Witch Is, quest’ultimo presentato negli spazi dell’associazione. 

Abbiamo quindi deciso di provare a comprendere meglio questa esperienza, chiedendo a ZIA un confronto diretto. Quello che leggerete di seguito sono alcuni stralci della lunga chiacchierata insieme a Paris, Mignemi e Serini, in cui oltre a indagare le ragioni e l’identità di questo singolare progetto, abbiamo raccolto la loro prospettiva sul ruolo e la funzione dell’arte, in particolare quella teatrale, nel contesto sociale attuale. 

ZIA: Ricostruire poeticamente il mondo. Intervista a Eleonora Paris, Francesca Mignemi, Irene Serini.

ZIA acronimo di Zona Indipendente Artistica: Cos’è e perché nasce? 

«Z.I.A. nasce come uno spazio in cui poter scrivere, provare, sperimentare. Quindi come una casa per i nostri progetti, ma anche casa per qualcosa che pian piano abbiamo definito teatro indipendente», dice Eleonora Paris, presidente dell’associazione. Le fa eco Francesca Mignemi: «Dopo il diploma in Paolo Grassi nel 2018, io Eleonora e Virginia desideravamo uno spazio in cui poter costruire uno spettacolo e dare anche la possibilità a delle compagnie come noi di costruire i propri». «Spesso un’associazione culturale è associabile a una compagnia», precisa Irene Serini. «Questo in ZIA non accade. ZIA è innanzitutto un luogo di accoglienza. Tant’è vero che abbiamo aperto il nostro spazio prove ad alcune compagnie indipendenti che hanno una linea artistica anche molto diversa dalla nostra». 

Come si inserisce nel tessuto urbano? A chi vi rivolgete?

Serini: «Quando abbiamo inaugurato ZIA, la risposta più immediata è stata dai colleghi, e ancora oggi la comunità che più sostiene ZIA è fatta di teatranti e addetti ai lavori, ma la direzione che vorremmo perseguire è quella di intercettare i bisogni del quartiere, che non è abituato alla presenza di un teatro. Vorremmo riuscire a creare una comunità che trasformi positivamente questo territorio. Anche per questo abbiamo proposto, oltre agli spettacoli, delle attività laboratoriali aperte a tutti. ZIA ha una doppia anima: da un lato quella di essere una casa artistica per teatranti, dall’altro quella di provare ad essere un luogo catalizzatore per chi magari non frequenta abitualmente i teatri istituzionali, ma se ha un teatro vicino a casa che riesce a proporre qualcosa che non sia solo intrattenimento, magari ci va volentieri. Siamo in ascolto, vorremmo esplorare le esigenze e le necessità di chi vive in questa zona».

C’è una ragione particolare per cui avete scelto questo luogo?

Paris: «Il desiderio era di stare in periferia, dove sopravvive una Milano non gentrificata, molto lontana dalle narrazioni e dal lusso iper-capitalista di alcune parti della città. Una delle ragioni per cui ci siamo innamorate di questo spazio è perché era un centro scommesse. Potrebbe essere una delle poche volte in cui un centro scommesse chiude per fare spazio ad una associazione di questo tipo».

Siete un’associazione, ma non una compagnia. Lavorate a volte singolarmente a volte in gruppo, ma non avete mai fatto qualcosa tutti e cinque insieme. Ci sono delle affinità che vi legano?

Paris: «Innanzitutto siamo indipendenti. Questo vuol dire da un lato avere la libertà di lavorare ai propri progetti, dall’altro lavorare secondo delle logiche che non sono quelle della produttività o dei circuiti cosiddetti ufficiali». 

Serini: «Questo implica anche fare i conti con dei mezzi diversi rispetto a quelli di chi viene prodotto e direzionare la propria creatività di conseguenza. Ciò che però profondamente lega tutte le nostre ricerche credo sia la volontà di trattare argomenti che in qualche modo accendono il pensiero contemporaneo, mettere sulla graticola temi di attualità, porre degli interrogativi cogenti del nostro tempo». 

Mignemi: «Così come il punto di vista che cerchiamo di assumere, ossia quello di chi è stato dimenticato, silenziato o addirittura censurato, che di solito è il punto di vista mancante nella storia». 

Ci sono delle realtà simili o delle esperienze artistiche affini al vostro modo di intendere il “fare teatro”?

Paris: «Io personalmente sono legata per formazione ai Frosini/Timpano e Kataklisma Teatro. E’ una dimensione, un modo di fare ricerca che sento molto affine. Così come le artiste e gli artisti con cui abbiamo lavorato o che hanno frequentato ZIA in questa prima parte di stagione. Lotto Unico a Roma potrebbe essere un tipo di realtà simile a ZIA». 

Qual è il futuro di ZIA e cosa ci aspetta da questa Zona Indipendente Artistica nel 2024? Qual è l’idea di teatro che vi guida?

Mignemi: «Seguendo l’insegnamento di Peter Brook, direi che il teatro è il luogo della relazione, cioè è tale se è condiviso. Il linguaggio del teatro è fisico e come tale richiede di avvenire in presenza di qualcun altro. Una dimensione non scontata, se pensiamo che oggi siamo in condizione di godere di molti prodotti o tipi di intrattenimento completamente da soli, senza aver bisogno dell’altro. Per questo il teatro ha un valore collettivo, rituale. Si rivolge a una comunità che è quella che vorremmo costruire intorno a questo spazio coinvolgendo anche il quartiere».

Serini: «Della relazione e dell’emozione aggiungerei, ricordando Artaud, di liberazione di ciò che viene schiacciato quotidianamente dalla razionalità o dai ruoli che occupiamo nella vita. Riguardo al futuro di ZIA, sarebbe bello che fosse anche uno spazio dove creare una micro-circuitazione di compagnie indipendenti, fuori dalla circuitazione ufficiale. Questo darebbe a noi la possibilità di confrontarci e di riflettere sul nostro lavoro e farebbe senz’altro bene al territorio».

Paris: «E alle persone. Vorremmo che chi entra in contatto con ZIA percepisca una dimensione accogliente, di cura. Il lavoro che facciamo è per qualcun altro, che a teatro siamo abituati a chiamare pubblico. Anche negli incontri che facciamo a fine spettacolo c’è il tentativo di creare, come diceva Francesca, uno spazio di interazione e di relazione. Questa è ZIA. Viviamo un momento storico in cui sembra che il mondo stia crollando e credo ci sia l’esigenza di provare a costruire, a trovare alternative alla realtà che viviamo. In questo senso il teatro è fondamentale, perché è profetico, cioè è dove vediamo il margine prima che diventi centro. Un luogo in cui porre delle domande per creare senso critico sulla realtà, in cui mettersi in discussione, ma anche un luogo in cui a partire da degli interrogativi si può generare pensiero. Il teatro è un luogo di possibilità dove ricostruire il mondo poeticamente. E la poetica del ricostruire è in fondo politica ed è quella che manca nel nostro presente, un’altra idea di mondo. La capacità di ipotizzare mondi possibili, che è ciò che invece è il teatro».