«Non vogliamo vinti o vincitori ma tempi migliori per chiunque ha sofferto, e siamo uguali da Milano a Bari nonostante Umberto», cantava più di vent’anni fa un J-Ax nel pieno del successo degli Articolo 31: era il 2002. Ex-cantante e oggi senatore, l’Umberto era anche lui all’epoca nel pieno del successo. Ma nooo, mica per il pregio della sua musica, per la politica! Era già ministro della Repubblica che storicamente deruba la sua gente, nonché segretario di ferro dell’allora Lega Nord.
La canzone degli Articolo, dal programmatico titolo Gente che spera, era forse anche un modo per dire una reazione a quel clima di rivalità e di odio sociale che quell’esperienza politica ha contribuito non solo a catalizzare, ma anche ad alimentare (se lo zio Ax ci legge può rispondere eh). Un astio che per la Lega si tramutò in consenso e bacino elettorale (e dané) e che contribuì – ma ancora contribuisce – ad una demonizzazione del sud Italia e a una narrazione dell’identità nazionale che contrappone il nord e il sud del Paese, infettando da meridione a settentrione, da est a ovest, per azione o per reazione, tutti gli italiani.
Scoprire di essere terroni
Tuttavia non è vero, come cantava J-Ax che siamo proprio uguali uguali da Milano a Bari. O meglio lo siamo, ma ci sono alcuni, come nella fattoria di Orwell, che sono più uguali degli altri. Ci sono periferie e province che valgono più di altre, parole che fanno più male di altre, varietà linguistiche e accenti più “puliti”, più “colti” di altri (sì zio Ax, è così). L’ho pensato sin da quando, alla non più proprio tenera età di diciannove anni, trasferitomi a Milano, ho scoperto di essere meridionale e, quando facevo il monello, perfino terrone (terroncello o terronaccio per gli amici). Questo, prima di essere salentino – radice in cui, con varie fatiche e necessarie rimozioni, mi riconosco.
Sarà che mi hanno visto olivastro, o poco alla moda, o che la mia parlata suonava comunque troppo difforme. Vallo poi a spiegare ai milanesi che il raddoppiamento fonosintattico è una caratteristica della lingua italiana… Macché è una terronata, ti dicono. Ma lo scrive Serianni! Provi a replicare. Chi? Serianni! E di dov’era? Boh… Di Roma, ecco: terrone! AH… I romani sono terroni? Sono del sud! Del sud? Va beh, sono pur sempre sotto il Po… E quindi? E quindi sono terroni… Ma che c’entra Roma con Bari, Lecce, Palermo… Va beh, lì è proprio Africa. AH… Ma scus…
Va beh va beh, insomma, avete capito la solfa, lasciamo stare… Dove ero rimasto? Ah sì, Milano…
Milano: BookPride 2023 – Parlare Meridionale: Incontro con Carmine Conelli e Giusi Palomba
Sempre a Milano, proprio qualche giorno fa, nella cornice del BookPride 2023, ho avuto la fortuna di gustarmi un incontro con Carmine Conelli e Giusi Palomba, moderato da Simone Marcelli Pitzalis. L’evento, dall’enigmatico titolo Parlare Meridionale, ha esplorato la non neutralità delle parlate e degli accenti meridionali, comunemente associati alla violenza, alla criminalità o alla comicità. «O Gomorra o Troisi», ha chiosato Palomba.
Il tema mi è sembrato interessante, soprattutto perché anche per parte mia mi sembra si possa dire che non tutti i dialetti sono uguali e che anzi quelli posti a nord della famosa isoglossa La Spezia/Rimini sono solitamente più tollerati, ritenuti più puliti, anche sfoggiati con l’orgoglio della saggezza antica; mentre quelli del sud, anche complici le narrazioni distorte di larga parte dei media, sono spesso associati a ignoranza e mancanza di educazione, più che alla regionalità, o al più, esagerati fino al parossismo, alla commedia. Potrei poi aggiungere un capitolo sull’estetica e la prossemica terronica, ma poi io a usare questo termine proprio non ce la faccio senza prurito. E poi alcuni amici mi hanno rassicurato che non è insulto, ma è un modo simpatico per indicare quello un po’ tamarro, quello stile un po’ aggressive, cafone. AH…
Chi sono i terroni? Il sud come esotico e la logica di colonialità
Ad ogni modo, mi è sembrato molto interessante quello che sostiene Carmine Conelli, che cioè ci sia una costruzione dell’imaginario legato al sud come posto esotico e che questo fenomeno sia in realtà riconducibile a delle logiche di colonialità che vengono dritte dritte dalla storia dell’unificazione.
Eh no! Questa me la deve spiegare! Allora con il reflusso di quello scazzo in Stazione Centrale quando un avventore, a cui avevo peraltro appena offerto una sigaretta, mi chiedeva se fossi italiano o terrone (e quello di mille altri legati a stereotipi razzisti che sarebbe inopportuno includere qui perché l’articolo finirebbe tra due settimane) decido di andarci a parlare e fargli qualche domanda. Conelli, che è uno che di studi post-coloniali ne capisce qualcosa, mi spiega che: «La rappresentazione dominante che abbiamo nell’immaginario contrappone nord e sud: un nord moderno, sviluppato, progredito, industriale, tecnologico a un sud che è arretrato, barbaro, incivile, criminale, ozioso, esotico. Sono delle categorie binarie, che ripetono un’omogenizzazione che oppone e che non tiene conto tanto delle differenziazioni interne dei territori del sud, sia della stratificazione della società».
La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno
Parlare di colonizzazione in riferimento all’unificazione italiana, mi spiega, è sicuramente sbagliato, ma allo stesso tempo la costruzione dell’identità italiana ha seguito le stesse logiche di quel tempo, cioè quello dell’Europa colonizzatrice. Il suggerimento è quindi leggere la costruzione dell’immaginario del sud Italia insieme a quello degli altri sud: Europa, America, Mondo.
Beh… Sud del Mondo è mica un termine geografico, mi viene da pensare… è un termine che si usa per indicare in generale i paesi sottosviluppati, o meglio sottosviluppati per i canoni occidentali. Poi mi viene anche in mente Vittorio Bodini quando si lamentava della sostanziale assenza del sud Italia dai libri di storia. E di fatti io mi ricordo da quando ero a scuola che è sempre successo tutto all’estero o a Firenze, a Roma, a Milano, a Bologna, a Torino, a Venezia. Perfino a Padova, a Siena, a Genova, a Urbino, a Ferrara, a Modena, nella Lunigiana succedevano un sacco di cose. Mai una cosa che la gente facesse dalle mie parti, sti debosciati.
Parlando ancora con Carmine (ormai ci diamo del tu) mi rendo conto che, quando non fa riferimento a quella contrapposizione binaria (nord-sud), ama usare sud al plurale. Lui è napoletano, io salentino. Veniamo da due posti distanti più di 400 km (più meno come Milano e Trieste, o Parma e Pescara), che hanno storie, lingua, tradizioni e morfologia del territorio differenti: lo fa per non schiacciare tutto insieme. Lo trovo molto bello e gliene sono grato. Anche perché di meridione come fosse un monolite, di sud a senso unico parlano solo quelli là, quelli che non hanno idea di cosa parlino. Ogni tanto viene fuori la parola “inferiorizzazione”, che mi colpisce molto, così come il termine nordsplaining. Di questo mi dice che ne parla nel suo libro: Il rovescio della nazione – La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno. Sulla dedica mi scrive, tra le altre: «Smontiamo il sud».
Il libro l’ho appena iniziato e di decolonialità non mi sono mai occupato. Penso però che provare a inquadrare non la questione meridionale, ma la questione della categoria “meridionale” a livello culturale in senso più ampio, in relazione alla storia di costruzione dell’identità europea moderna sia molto interessante. Penso che è vero, le parole sud, mezzogiorno, meridione hanno da tempo smesso di essere, nell’immaginario colletivo, un mero riferimento geografico, ma sembrano portare già al loro interno un grumo di valori. Come che si diceva? Ah sì, non sono neutre… Alla parola terrone, alle migrazioni economiche degli anni 50 e 60 e ai loro strascichi, ai razzisti e ai razzisti al contrario, preferisco non pensare, perché va a finire che io mi incazzo, tutti si incazzano e nessuno ci capisce niente.
Intersezionalità?
Penso invece, chissà perché, a quella cosa che Deleuze chiamava geofilosofia. Mi viene in mente Foucault. Rimugino su quello che ho imparato di ciò che prima lui e poi sempre Deleuze e poi Agamben hanno chiamato dispositivo. Mi chiedo se abbia a che fare anche con questo discorso… Non sono un filosofo, ho fatto letteratura io…
Se non che dagli abissi dei miei studi, mi tormenta anche quell’intuizione di Virginia Woolf sul ruolo sociale della donna: restituire come allo specchio un’immagine ingrandita dell’uomo. Esagerare o inventare le mancanze per far sembrare più preziosi gli attributi altrui. Farsi piccola per far sentire grande, abbassarsi per valorizzare l’altezza. Il rovescio della nazione, dice Carmine… Gli attributi negativi… Il rovescio della nazione, non la nazione… La nazione e il rovescio della nazione… Una parola, due parole… Italiano o terrone, non settentrionale o meridionale, italiano o meridionale… E quel refrain dell’antropologo Pierre Bourdieu? Com’era? «La forza dell’ordine maschile si misura dal fatto che non deve giustificarsi: la visione androcentrica si impone in quanto neutra e non ha bisogno di enunciarsi in discorsi mirati a legittimarla». La forza dell’ordine si misura dal fatto che non deve giustificarsi… la visione androcentrica si impone in quanto neutra…
Visione neutra… Accento neutro… Il rovescio della nazione… Italia-Terronia, Italia-Africa, Italia – Meridione…
Il Book Pride è finito e queste cose a Carmine non gliele posso più chiedere… Magari qualcuno, però, ci troverà del senso…