Siamo a Napoli, negli anni Ottanta. La bellissima e pazza zia Patrizia (Luisa Ranieri), simbolo delle pulsioni erotiche nonché musa ispiratrice di Fabietto Schisa (Filippo Scotti), alter ego del regista, attende l’autobus per tornare a casa, in una magnifica Piazza del Plebiscito congestionata dal traffico. Enzo De Caro, nelle vesti di San Gennaro, le offre un passaggio in una Rolls-Royce d’epoca: comincia così È stata la mano di Dio, il nuovo film del premio Oscar Paolo Sorrentino, in cui fantasia e realtà, follia e umanità viaggiano insieme senza mai dividersi.
Sembra quasi di poter entrare in casa della famiglia Schisa, sedere sul divano mentre gioca il Napoli, ridere di gusto per gli scherzi della madre (Teresa Saponangelo) e sentire il cuore riempirsi di dolcezza per le preoccupazioni amorevoli del padre (Toni Servillo). Si sprofonda completamente in tutta la verità e il folclore familiare. I sontuosi e divertenti pranzi di famiglia, le “cafonate”, le bottiglie di salsa riposte a bollire nei grandi pentoloni. E poi le follie della zia Patrizia, oggetto di desiderio e vergogna, le gite in barca.
Fabietto, solitario e appassionato di Dante, con il suo immancabile walkman, che lo accompagna astutamente per tutta la durata del film senza mai riprodurre alcuna canzone eccetto Napule è nella scena finale, osserva attentamente la realtà che lo circonda, inconsapevole che un giorno sarebbe riuscito a trasformarla in un capolavoro cinematografico. Una delle particolarità che differenziano questa pellicola dalle altre precedentemente prodotte dal regista è certamente la mancanza di musica; al contrario vi è un grande lavoro sui suoni, come se Sorrentino avesse voluto riprodurre quelli della sua giovinezza, che ancora custodisce nella memoria: il tuuf tuuuf dei motoscafi o il rumore dei motorini.
La mano di Dio del Pibe de oro
Ma la vita degli Schisa è destinata a cambiare per sempre. Fabietto ha solo 16 anni quando entrambi i genitori muoiono all’improvviso. La causa è un avvelenamento da monossido di carbonio provocato da una fuga di gas nella casa di villeggiatura a Roccaraso. L’unica ragione per cui il protagonista non si trovasse lì quella notte, salvandosi, è stata quella di aver ottenuto il permesso di restare a casa per andare a vedere Maradona che giocava a Empoli in trasferta con il Napoli: ecco, “la mano di Dio” è quella del Pibe de oro che lo ha graziato.
Non a caso all’inizio del film su uno sfondo nero campeggia la frase emblematica pronunciata da Maradona: “Ho fatto quello che ho potuto. Non credo di essere andato così male“. Quella notte rappresenta un punto di non ritorno per il protagonista. È il momento in cui vede la fine della sua gioventù e gli albori dell’età adulta, sebbene il seme del disincanto per la vita fosse già sbocciato dopo aver scoperto il tradimento del padre e il profondo dolore della madre. Fabietto inizia a disunirsi da qui.
Il tentativo di ricomporre il futuro, partendo dal dolore
Sorrentino, raccontando dei suoi genitori in un’intervista a Repubblica, ha dichiarato: “[…] Però non averli potuti vedere è il mio trauma più grande. Mancando il congedo, il saluto, inconsciamente scatta l’abbandono. Ecco, se ne sono andati senza salutarmi“. La solitudine diventa dunque separazione e il futuro perde i suoi contorni nitidi. “Non me li hanno fatti vedere” grida Fabietto con tutta la forza che ha dentro di sé davanti al suggestivo Golfo di Napoli tinto dai primi colori dell’alba, quando il regista Antonio Capuana, a cui si rivolge per iniziare a muovere i primi passi nel mondo del cinema, considerando la realtà ormai scadente, gli chiede: “A tien’ ‘na cosa ‘a raccuntà? […] ‘Nu dolore?“. Un dolore da cui partire, una crepa da cui far entrare luce. E di fronte a tutta quella rabbia e sofferenza gli grida “Non ti disunire“.
Parole che risuonano nella baia napoletana come un eco e ricordano a tutti noi la bellezza del rinnovamento che caratterizza anche gli eventi più dolorosi. La condizione dettata dal destino fatale pone quindi il protagonista di fronte a scelte difficili, per tentare di ricomporre sé stesso. E così inizia a pensare al suo futuro. Si reca a Roma, dove cercherà (e troverà) la strada giusta, ovvero quella in cui si diventa ciò che si è, come scriveva Nietzsche.
Una pellicola sensazionale nonché il primo film del premio Oscar basato sul vero e non più sul verosimile, per quanto il cinema possa effettivamente avvicinarsi alla vita reale. Sorrentino aveva già rappresentato la sua condizione di orfano attraverso il personaggio di Lenny Belardo nella serie Netflix The Young Pope. Un film pieno di speranza per l’avvenire che, nonostante le sofferenze della vita tendano spesso ad oscurare, bisogna solo aspettare, esiste per tutti.
Chiara Urso