Fa caldo. Ammazza se fa caldo…
Chiudo il negozio, preparo lo zaino con lo stretto indispensabile stando attento a non portare nulla che mi possano fregare ai controlli, salgo in macchina dopo un pasto frugale e dopo aver recuperato un paio di amici si vola verso San Siro. Arriviamo che sono da poco passate le 13.00. Fa ancora più caldo.
Ci mettiamo in fila all’ingresso 2 dove c’è ancora poca gente e aspettiamo che arrivino le 15. Entriamo e ci dirigiamo verso il palco, quella poca aria che c’era cessa di esistere una volta entrati in quella spettacolare scatola di cemento carica di storia e di passioni. Siamo sulle transenne, subito dietro il pit gold e non ci resta che aspettare: cominceranno alle 20.00.
Primo gruppo spalla: i Dirty Honey. Rock ed energia alla stato puro, un gruppo che merita assolutamente di essere ascoltato e di essere gustato in un live da headliner, con i volumi sparati al massimo.
Seconda spalla: Gary Clark Jr. Bravo, bravissimo, ottimo chitarrista e con una voce che riesce a trasformarsi da un pezzo all’altro, da profonda e piena ad acuta e cristallina, come se fossero due cantanti totalmente distinti. Unica pecca: il suo blues non c’entrava niente con quello per cui si era lì quella sera. Uccideva l’entusiasmo.
Terminata la sofferenza creata dal Bluesman, viene preparato il palco in brevissimo tempo e compare il logo sullo schermo alle spalle degli strumenti. Alle 20.01 il logo si muove, parte un video.
Sale la tensione, partono grida, applausi, chi può si pigia sempre più avanti, ancora un po’, dai…Eccoli, i Guns N’ Roses!!!
WELCOME TO THE JUNGLE BABY!!!
Per il resto è difficile trovare delle parole che valgano le emozioni provate quella sera, anche perché molte di esse erano contrastanti. Sul palco compariva quella che ormai è l’ombra del cantante di un tempo, quello con la maggior estensione vocale, ridotta ormai a brevi e sofferti momenti.
Però, ragazzi, sono i Guns ‘n’ Roses, delle leggende dell’Hard Rock che in soli quattro album (Appetite for Distruction, G ‘N’ R Lies e Use Your Illusion I-II) sono riusciti ad entrare a gamba tesa nella storia della musica, a loro si può perdonare (quasi) qualsiasi cosa, soprattutto per chi come me è nato dopo il loro scioglimento e che mai avrebbe sperato di vedere Slash, Axl e Duff sullo stesso palco.
Nel complesso però hanno portato a casa un gran concerto. Dal punto di vista musicale sono delle macchine, tutto praticamente perfetto e di grande impatto. Slash alla chitarra era immenso, con un volume da panico rispetto agli altri membri della band, ma non inadeguato. Ha suonato per tutte le quasi tre ore di concerto senza battere ciglio, mettendo o allungando qualche assolo qua e là per consentire agli altri (la maggior parte delle volte ad Axl) di staccare un attimo.
Dal canto suo Axl, tenendo conto del sovrappeso e dell’età, faceva ancora la sua parte scenica, ma come già accennato in precedenza faticava nella parte vocale. Ma poteva andare peggio. Dopo il video apparso in seguito al live di Dublino, dove veniva eseguita Sweet Child O Mine e dopo l’annullamento della data a Glasgow per il danneggiamento delle corde vocali la nostra preoccupazione sulle condizioni di Axl era tanta, ma alla fine si è ripreso e, nonostante le svariate pause, cambi d’abito e quasi imbarazzanti tentativi di fare gli stessi vocalizzi di trent’anni fa, ha eseguito anche pezzi di una certa difficoltà (come se ci fossero pezzi facili dei Guns!) come Estrange o Civil War, i quali mi hanno particolarmente impressionato.
Ovvio che non è più il sex simbol di un tempo, ma le donne presenti non hanno risparmiato urla e gridolini come se sul palco ci fosse ancora quel ragazzo dai capelli rossi e bandana che ancheggiando e ammiccando dal palco le faceva impazzire trent’anni fa. Perché alla fine è questo che conta, quello per cui ognuno di noi era lì: vedere i Guns N’ Roses, un gruppo che abbiamo amato e che sempre ameremo al di là di qualsiasi perfomance.
Ottimo anche Duff McKagan che ad un certo punto decide di far cantare tutto lo stadio con una sua versione di I Wanna Be Your Dog di Iggy Pop.
Per chi era lì in quello stadio, però, ciò che contava non erano tanto le pecche sparse qua e là, ma era la sensazione di assistere ad un pezzo di storia, a delle leggende viventi che suonavano davanti a te portandoti in un mondo che molti di noi non avevano vissuto se non attraverso i dischi o i video su YouTube, lasciando indelebili ricordi e la consapevolezza che se molte volte la realtà delle cose si scontra inesorabilmente con le proprie aspettative, la leggenda rimane immutata emozionando in qualsiasi condizione si presenti.
Francesco Mazzini